Non riesco a lasciar passare nulla. Ogni scena diventa racconto. Ogni gesto si trasforma in simbolo. È una maledizione, sì. Ma almeno è mia.
Oggi, tra erba, sterpi e rovi, ho visto nascere un mito. L’ho visto con i miei occhi. E ora te lo sputo addosso, così com’è.
Succede che Jordan, collega, fratello di colore e sudore, uomo dritto col cappellino all’indietro e il giubbotto catarifrangente, va a pisciare. Fine della storia, diresti. E invece no.
Dietro di lui c’è Renato — uomo bianco, origini greco-albanesi, probabile possessore di un serpente corto ma lingua lunga — che gli sibila:
“Stai attento al serpente.”
Poesia da cantiere, sporca e marcia, partorita tra decespugliatore e pause sigaretta. Ma non è finita.
Davanti, presenza silenziosa fino a oggi, si materializza Cristian.
Cristian, il bisiacco. Capelli lunghi, passo lungo, sei chilometri al giorno come niente fosse. Uno che parla poco, ma quando lo fa… Ha la R motion, quella che vibra. Ha la voce che sembra dormire, ma sveglia tutti.
E dice, come solo gli R motion sanno dire:
“Ehi, se te lo vede il serpente… resta umiliato.”
BOOM.
Tutto esplode. Il tempo si ferma. Il serpente — che non esiste — diventa Dio. Diventa giudice, metro di paragone, fantasma fallico che gira tra gli alberi a misurare uomini e orgoglio.
Jordan resta lì, nudo, con la foglia di fico che non copre la verità. Non il cazzo. La verità.
E io che faccio? Io vedo tutto. Io prendo la scena e la marchio. Disegno. Scrivo. Rido. Rifletto. Perché non riesco a lasciar morire le cose nel dimenticatoio dell’idiozia.
Renato sputa veleno per sentirsi grande. Cristian spara una sentenza e lo fa a pezzi. Jordan è lì, involontario martire della nuova Genesi.
E io, Daniel Graves, metto tutto su carta. Perché è questo che faccio. Perché so che nella merda quotidiana, ogni tanto, nascono i racconti che contano. Non quelli che fanno la storia, ma quelli che la spiegano meglio.
Oggi il serpente, simbolo di millenni, è scappato. Davanti a un uomo nudo, una battuta tagliente, e la mia matita.