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Tagliare l’erba. Un gesto semplice, dice qualcuno. Un mestiere da niente, direbbe un altro.

Che vada a cagare anche lui, se ci riesce. Perché io, oggi, nemmeno quello.

La fatica, quella che ti spreme la schiena come uno straccio marcio? Non quella romantica dei poeti in crisi, no. Quella bestiale, sorda, infame. Quella che ti arriva dopo ore sotto il sole, col ronzio del decespugliatore che ti scava nel cervello e l’odore dell’erba tagliata che non profuma più di niente.

Tagliare l’erba. Un gesto semplice, dice qualcuno. Un mestiere da niente, direbbe un altro. Che vada a cagare anche lui, se ci riesce. Perché io, oggi, nemmeno quello.

Sono tornato a casa col collo spezzato e la camicia intrisa di sudore rancido. Ho buttato giù due litri d’acqua e un panino che sembrava di cartone, poi mi sono seduto sul cesso come un soldato al fronte. Aspettavo lo sblocco. Il rilascio. Il premio. Ma niente. Solo silenzio. Il corpo non ce la faceva nemmeno a espellere. Troppo stanco anche per cagare. Capito?

E lì, su quel trono bianco che di regale non ha più un cazzo da tempo, ho chiuso gli occhi. Ero morto sveglio. Con le mani a penzoloni, il fiato corto, la testa piegata come un animale bastonato. Avrei potuto piangere, ma non ne avevo la forza.

E allora sì, ridete pure. Fate la battuta facile. “Che schifo”, direte. Ma questa non è una storia di merda. È una storia vera. Di fatica. Di ossa logorate per pochi spicci. Di un uomo che si è rotto la schiena per domare un prato e ha finito col farsi domare lui.

Questo è il punto. Che a forza di tirare avanti, non caghi più. Non sogni più. Non vivi più. Ti siedi. Ti svuoti. Ti spegni.

E la cosa più tragica è che domani c’è ancora erba da tagliare.

Carta Straccia

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