
I razzi, i droni, l’intelligenza artificiale che ti porta il caffè e ti legge l’anima. Ma eccolo qui il futuro: un bambino in mezzo alle macerie, con un casco da astronauta in testa e in mano un panino che cola più ruggine che speranza.
Il tramonto brucia dietro di lui, mentre un drone lo sorveglia come un Dio di plastica armato di telecamera. Non c’è più nulla da scoprire, solo da controllare. Non è fantascienza, è necroscienza: lo studio clinico di un mondo che ha fallito il domani prima ancora che iniziasse.
Avevamo tutto. Avevamo le idee, i sogni, le ribellioni, la rabbia buona. Ma li abbiamo venduti per una connessione veloce e un contratto a tempo determinato. Abbiamo chiesto pace e ci hanno dato notifiche. Abbiamo chiesto senso e ci hanno dato contenuti. E mentre scrollavamo, il mondo moriva.
Quel bambino sei tu. Sono io. Sono le generazioni cresciute con l’illusione della crescita. Crescita di cosa, poi? Di profitti? Di debiti? Di devastazione? L’unico futuro che ci resta è sopravvivere al presente. In silenzio. Col casco in testa e le mani vuote.
“Il futuro è finito ieri.” Ma non ce ne siamo accorti, perché stavamo aspettando il nuovo modello di smartphone. O il bonus cultura. O il prossimo like.
Non c’è niente da salvare. Ma forse c’è ancora qualcosa da gridare. Perché se il futuro è morto, almeno non sia morto invano.