
C’è una chiave. Una sola. Sta lì, sospesa a mezz’aria, come se aspettasse qualcosa o qualcuno. E c’è una porta, mezza visibile, mezza negata. Il meccanismo è chiaro: serratura, chiave, passaggio. Eppure qualcosa non torna.
Fuori, c’è una figura. Sta all’ombra. Forse attende. Forse osserva. O forse non ha mai davvero bussato. La chiave è dentro, ma la mano è fuori. E in questo piccolo squilibrio si nasconde un mondo intero.
Chi ha il potere? Chi ha la chiave o chi ha la porta?
Ci sono giorni — infiniti giorni — in cui ti sembra di avere la copia, mentre gli altri si muovono con l’originale. Loro aprono, tu aspetti. Loro decidono, tu subisci. Ma poi ti accorgi che quella copia, quella chiave secondaria, funziona lo stesso. Perché il potere non è sempre dato: a volte è preso in silenzio, con dignità.
Io so di non avere il potere che autorizza. Ma ho quello che rifiuta. E questo basta.
La figura fuori può aspettare quanto vuole. Può fingere che la porta sia già aperta. Può girarsi verso altri, cercare scorciatoie, raccontare bugie. Ma io sto dentro. E so cosa tengo in mano. E so cosa vale il mio “no”.
Ogni giorno, questa immagine si ripete. Non è un evento. È una condizione. Una lente con cui guardare il potere, la fiducia, la responsabilità e l’ambiguità. Una verità muta, ma tagliente.
“Chi è fuori può alzare la voce. Ma chi ha la chiave sa già cosa aprire… e cosa tenere chiuso.”
Daniel Graves