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Mi sono messo il guinzaglio da solo


Mi sono messo il guinzaglio da solo.
Nessuno mi ha puntato una pistola alla tempia. Ho alzato la mano come un volontario ubriaco di dovere, ho detto “ci penso io” come se quelle tre parole fossero un distintivo d’onore invece che una condanna.

E ora eccomi qui: un cane con il collare stretto, che tira la corda verso un destino che non ha mai scelto, ma che ha accettato per paura di vedere gli altri in ginocchio. Io, il guardiano di una casa che brucia, convinto che il fumo fosse solo una nuvola passeggera.


La trappola? L’ho costruita io.
Mattone dopo mattone, con le migliori intenzioni, come tutte le prigioni più crudeli.

Pensavo che tenere duro fosse un superpotere. Che dire “non c’è problema” mentre ti sanguinano le gengive fosse segno di carattere.

Che idiota.


Ora cammino con le ossa rotte e un sorriso di cartapesta, tirando questo cazzo di guinzaglio come se ancora controllassi qualcosa.

Ma non controllo un cazzo.
Non il sonno che non arriva. Non la rabbia che rode. Non la voglia di mollare tutto e sparire in un bar alle 10 di mattina.

E la verità più amara?
Se domani mi sbriciolassi, il mondo continuerebbe a girare.

Il lavoro lo farebbe qualcun altro, le responsabilità scivolerebbero via come birra versata su un bancone sporco.

Nessuno è insostituibile, tranne nella propria dannazione.


Mi sono legato da solo.
E ogni mattina mi porto in giro, fingendo che la corda al collo sia una cravatta.


Ma oggi lo ammetto:
l’unico atto di ribellione rimasto è fermarsi. Strapparsi il guinzaglio, sputare per terra, e smettere di credere che essere un uomo significhi “resistere a tutti i costi”.

Forse l’unica cosa da salvare, alla fine, sono i resti di te stesso.

E anche quello, a volte, è già troppo.


Carta Straccia

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