Si svegliano prima dell’alba. Quando il silenzio puzza ancora di sonno e le città sembrano ossa spente. Mettono su il caffè, magari quello in offerta, quello che sa più di metallo che di arabica, lo bevono in fretta e infilano i piedi nelle scarpe della sconfitta. Tutto ricomincia. Tutto è già vecchio.
Li chiamano “gli italiani che non mollano mai”. Ma non è coraggio: è rassegnazione mascherata da disciplina. È che non hanno scelta. Devono correre dietro a stipendi da fame, tra bus in ritardo, fabbriche che sbriciolano i polmoni e padroni che si credono dei. Lavorano nei magazzini a -5 gradi, nei cantieri senza casco, nei supermercati con la vescica piena perché la pausa pipì non è prevista dal contratto. Se ce l’hanno, un contratto.
Arrivano a sera con le ginocchia che tremano e il conto corrente che ride di loro.
Non si parla mai di loro. Non fanno notizia. Non urlano, non rompono, non fanno scioperi che bloccano tutto. Lavorano. Semplicemente. Come formiche cieche in un sistema che le schiaccia e le applaude. Gli si dice che sono la spina dorsale del Paese, ma ogni tanto sarebbe il caso di ricordare che anche le spine dorsali si spezzano.
E quando si spezzano, nessuno le raccoglie. Nessuno gli porta fiori. Al massimo gli danno un buongiorno e una tazzina. Piena di cicche, di stanchezza, di silenzio. Di veleno.
Sì. Ma finisce ogni giorno un po’ più tardi. Un po’ più sotto terra.